R. Donnarumma su Il grande innocente (Allegoria)

Forse la cosa più difficile oggi, per chi scrive poesia, è credere nella lirica senza vergognarsene e senza cadere in atteggiamenti regressivi. Il primo atto di coraggio comporta l’investimento sull’io, sede dei conflitti veri e luogo in cui si elabora il senso; il secondo, il lavoro sugli istituti stessi della lirica, che forza i propri confini senza perdere la propria identità. Gabriel Del Sarto è sempre stato un poeta di questo tipo, e Il grande innocente, il suo terzo libro dopo I viali del 2003 e Sul vuoto del 2011, conferma la sua vocazione. Anzitutto, c’è una tendenza a raccontare che si manifesta su diversi piani. Il primo è quello in cui l’io mette in scena i momenti isolati della sua vita, fatta di storia familiare, di lavoro, di osservazione dell’intorno, di meditazione in forma di domanda più ancora che di asserzioni. Il secondo è un collegamento con i due libri precedenti, per disegnare quella che l’autore chiama una «trilogia del tempo», ma in un modo che tende a suggerire una sovrasignificazione per analogie e richiami, anziché un tracciato chiuso. Il terzo è quello di poemetti come Gli uffici, il cui protagonista è Paterson (con un ovvio omaggio a Williams), un professionista cinquantenne costruito solo in parte con materiali autobiografici, e Il grande innocente, dedicato al nonno partigiano morto pochi giorni dopo la nascita del padre del poeta: qui, l’io è un «narratore» coinvolto nella vicenda, ma si è messo da parte perseguendo quella tendenza al riserbo che già abita il primo livello. Il racconto è insomma una forza insieme di composizione e di scomposizione: unisce i pezzi, traccia le linee, e al tempo stesso spezza la storia dell’io e moltiplica le figure. L’io lirico è perciò una voce diffratta in una pluralità di persone. Non solo cede il campo, come abbiamo detto, ad altri con cui è pure implicato (Paterson, il nonno), ma dietro lo stesso nome Gabriel si riconoscono volti diversi: il poeta, l’angelo dell’annuncio, il protagonista dei Morti di Joyce, «altri Gabriel che la letteratura e la vita gli hanno fatto incontrare». Questa diffrazione del sé è il segno del privilegio e dell’umiltà di chi parla: il privilegio fondato, come vuole il canone romantico, sull’intensità con cui attraversa le vicende e su una ricerca di saggezza; e l’umiltà di chi si sa abitato da molti, e parla per quelli – cioè, in loro vece e a loro nome, assumendosene la responsabilità, ma anche a loro, come a individui finiti e distinti, che arginano l’egotismo lirico. L’io si muove così fra «la semplice verità della solitudine di tutti», la certezza di essere «dentro le storie sentite», la ricerca di un «valore collettivo». C’è un’etica della poesia in Del Sarto, e una religione dei rapporti umani: «Possa poi emergere una profonda e delicata pietà, / una nostalgia perplessa che ci accompagni, / quasi una preghiera». Del Sarto vede il «tempo corrotto», lo mette in relazione con un passato che può avere i tratti dell’eroismo, ma che è segnato dal lutto e dall’incompiutezza; vede anche la marginalità della poesia oggi, come conosce le diagnosi sul declino di un’idea alta di letteratura; ma combatte tenacemente, senza alzare la voce. Il grande innocente dice infatti che la tradizione del secondo Novecento non si è affatto esaurita, e che si può partire da lì per dire qualcosa di decisivo. La poesia di Del Sarto è piena dei paesaggi del presente, ma fa sempre un salto verso qualcosa di duraturo, cerca e raggiunge la memorabilità della grande lirica, pronuncia in modo credibile le parole. Aver introiettato sino in fondo una condizione storica senza arrendersi, conservare memoria del passato guardando all’oggi consente a Del Sarto di rinnovare il miracolo del modernismo: essere insieme autoconsapevole e autentico.

 

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