Intervista di Michele Bordoni

Riporto qua integralmente l’intervista che Michele Bordoni mi ha fatto per l’edizione on line di Atelier, apparsa in due puntate nel mese di luglio del 2022

MB – Il tuo ultimo libro, Tenere insieme (Samuele Editore, collana Pordenone Legge, 2021) è una pubblicazione che raccoglie, con alcune modifiche, i tuoi libri I viali  (Atelier, 2003), Sul vuoto (Transeuropa, 2011) e Il grande innocente(Aragno, 2017). Il testo che apre questa raccolta, A 3 km, Gabriel, sembra presentare in nuce tutte le tematiche principali della tua produzione, in particolare quelle della casa, della quotidianità, della condivisione della stessa mensa e quella relativa alle presenze angeliche. “Le cose accadono” come si legge nella citazione da Hill che apre il testo: e le cose accadono nella loro umiltà, anche nella loro scoratezza: “Le circostanze sono / fatte / così. Indecenti”, “E pure questo, credere per istinto di conservazione, / pure questo è / sublime e quotidiano”, “Correnti di vento ascensionali, s’annuncia tranquillo / il fine settimana in questa mattina, californiana / sul lungomare – ogni cosa è perfettibile” e si potrebbe continuare. Questo paesaggio vacanziero (“il posto di vacanza” di Sereni – e forse, implicitamente, quello della villeggiatura pagnanelliana) sembra conflagrare, in alcuni momenti, con la sua polarità sublime, quasi mistica, per cui il dato quotidiano si apre a epifania dell’ordine eterno che, essendo tale, è perpetuamente presente alla sua origine: “Esistono ore / che ancora mi possono colpire con la loro luce / bassa, la coincidenza dell’Origine / e della Fine, qui fra le canne / spazzate dal sole e dal sale, ai lati del viale, buone / per tirar su negli orti le gioie estive dei pomodori”, oppure, nella seconda partizione della raccolta, “Il presente è dove abita la pace”. Potresti approfondire questa coincidenza di alto e basso, di salita e discesa?

GDS: L’alto è il basso e il basso è l’alto, diceva Meister Eckhart. Scendere verso il basso, il “fondo dell’anima” come lo chiamava, significa ascendere, e quindi conoscere quel Dio che “mi è più intimo di quanto io lo sia a me stesso”. In questo percorso di conoscenza il ruolo del Logos, alla fine, è quello di riconoscere che al fondo del nulla anche l’io trova la sua morte. Tutto muore. Anche l’io deve morire, perché se muore a se stesso, se rinuncia ad ogni volontà e a ogni desiderio, allora sarà penetrato da Dio. Questo è il movimento fondamentale che puoi trovare in filigrana al libro intero, ma espresso da dentro la nostra epoca, abitato dalle cose della nostra epoca, con la lontananza di Dio che sperimentiamo nella nostra epoca. Tenere insieme, letto secondo questa chiave, è quindi un libro che rappresenta tre tappe di un percorso iniziatico: la ricerca iniziale, la perdita e il vuoto, e infine la nuova scoperta di un senso e di una fede, per quanto sempre minacciata e fragile, impossibile da possedere. Una fede “quantica”, mi verrebbe da dire, perché alla fine non prevedibile, basata su intuizioni, vibrazioni e vagiti, più che su teologie strutturate. Un percorso di questo tipo, se si fonda sulla serietà, non può che guardare con sospetto ogni eccesso di astrazione ed essere strettamente legato alla quotidianità, dimensione di partenza e poi di arrivo di ogni riflessione.

Esiste poi, almeno nelle mie intenzioni, anche una lettura “laica” del libro, in cui Dio e gli angeli significano altro e non loro stessi. Intendo dire che il campo di forze in cui si muove l’io di questi testi è comune a tutti coloro che, al di là delle fedi, tentano di interpretare la nostra epoca, coloro che cercano la verità dei nostri “destini generali” senza dimenticare la loro biografia. Si deve però fare chiarezza su cosa io intenda con biografia, evitando di schiacciare questo concetto alla mera concatenazione dei fatti accaduti ad un individuo in un dato tempo. La biografia per me è un campo vasto, in cui si intrecciano tre piani, o livelli: quello appunto della cronaca e dell’esperienza di un individuo in carne ed ossa; quello dell’evento, ossia dei momenti episodici in cui la verità prende il sopravvento e, rivelandosi, carica di senso l’esistenza di tutti; quello, infine, della pluralità, che di fatto è quel piano in cui si comprende con profondità assoluta che l’io esiste solo nella relazione, in quanto “noi” concreto, incarnato e non astratto. Una relazione in cui nasciamo ma che, al tempo stesso, giorno per giorno intessiamo con gli altri umani e non umani, e persino con la materia non vivente. Capirai quindi che, in questo senso, è la biografia che trascende la storia collettiva, e non il contrario. Anche dentro questa lettura laica, il basso è l’alto, e il quotidiano misura il grado di verità di ogni pensiero.

 

MB – Nella prima partizione del tuo libro appaiono, oltre agli angeli (su cui si tornerà più avanti), alcune figure di marca veterotestamentaria: “Si ricava dalla roccia un’idea, veterotestamentaria, / di solidità in bellezza dispiegata / idea semitica di una nostalgia disperata, urlata oltre / il vento con voce di madre: chi mai / chi mai saprà consolare Rachele?” e ancora Giobbe, il roveto che avvampa “dolce e tremendo”. Oltre a questo sembra esserci una idea di distanza da Dio (“Dio è distante, difficile” ancora dall’epigrafe in esergo di Hill), una sorta di orfanità: “è simile / a quella polvere allora / presente ovunque come la fame, / e che immagino così sostanziale / alle strade alle case e ai giorni, a quei giorni, / soli di un orfano”. Sono aspetti correlati?

Il primo testamento ci parla di Dio attraverso figure, maschili e femminili, memorabili, colte nella loro quotidianità e nella loro lotta con Dio. Si stagliano sul dramma dell’esistenza con una forza per me impareggiabile, che deriva dalla naturalità con cui nell’ebraismo si tengono insieme piani per noi inconciliabili. Ci sono distanze che in realtà, nel sublime ebraico, non esistono, le cose della vita sono diverse se guardate attraverso gli occhi millenari di Rachele o Abramo o Mosè.

Le poesie “bibliche”, ora raccolte nella prima sezione della prima parte, nascono da esercizi di sguardo che possono essere semplificati con un movimento: parto dal testo biblico per poi scivolare nella mia vita o nella vita di un io a me contemporaneo, con i conflitti e i vuoti del nostro tempo. Questo metodo “di scivolamento” penso di averlo imparato da Turoldo, che sapeva interagire col testo rivelato alla maniera di un vero midrashita, riattualizzando la rivelazione stessa, dentro una tradizione mai data una volta per tutte. Per poter fare questo, devi dare un certo credito alla parola biblica, indipendentemente dalla tua fede. Oggi ci riesce, in certi romanzi, Cormac McCarthy, per citare l’altro autore che frequentavo in quel periodo. Lui spinge in scenari mitici o apocalittici ciò che per me rimane nella quotidianità e nell’attualità.

Quindi, per riassumere, in certe poesie ho cercato di guardare il presente in cui un dio è morto e potrebbe non essere risorto, con gli occhi di quei personaggi. Questo sguardo genera un punto di pressione forte con la realtà, qualsiasi cosa tu intenda con questo termine. La questione dell’orfanitudine ne è un esempio. Mio padre è quell’orfano. Ho cercato di guardarlo con occhi biblici, con la tenerezza dura che quei personaggi suggeriscono, mentre si muoveva nella sua infanzia con quel vuoto incolmabile. Questo ci insegnano gli angeli e, soprattutto, le donne bibliche, grandi protagoniste del libro di J, come ci ha descritto Bloom: la tenerezza non è consolatoria, ma terribile. È un rovesciamento antropologico. È l’uscita rivoluzionaria dalla violenza e dal patriarcato. Ed è l’unica possibilità che abbiamo.

Per tornare alla tua domanda: non solo sono aspetti correlati, Giobbe, Rachele, Gabriel sono anche un metodo. Nel libro lo uso spesso, anche se talvolta lo camuffo, inserendolo nel dettato diretto dell’io lirico o di un altro personaggio schermo, come Paterson, sorta di angelo caduto. Ma il punto è lo stesso: la distanza di Dio, noi, e il tempo della nostra vita.

 

MB – Nella seconda partizione della tua raccolta, una lunga e importante sezione, Gli Uffici, è un’estensione, verrebbe da dire, della “visita in fabbrica” sempre di Sereni, stavolta però con un coinvolgimento maggiore da parte del poeta, che entra a lavorare negli uffici, facendosi testimone di una realtà che, nel Grande innocente, prenderà il nome – se questa interpretazione non è forzata – di “egemonia”. Potresti parlare di questa sezione?

Hai detto bene. Gli uffici nasce programmaticamente come una sorta di ripresa, ma anche di risposta se vuoi, al poemetto di Sereni. Prende il via, innanzitutto, da esperienze dirette, legate al mio lavoro di consulente aziendale, che per molti anni è stata la mia attività principale. Quel lavoro, legato prevalentemente a programmi di riqualificazione del personale, mi ha permesso di intervistare amministratori delegati, direttori del personale o, più spesso, i titolari di piccole imprese, ossia quel tessuto imprenditoriale che caratterizza il nostro Paese. Talvolta sono sorte anche piccole confidenze, familiarità che hanno travalicato il semplice lavoro. Attraverso le loro parole, i racconti, gli aneddoti, ho potuto cogliere una parte dei vissuti di quella organizzazione. Spesso ho proposto e provato ad attuare iniziative che tendevano a migliorare le condizioni di lavoro, quando non addirittura a creare condizioni di micro-welfare interno, e per questo ho potuto intervistare anche molti dipendenti di quelle aziende. Ho insomma ascoltato “dal vivo” persone che consumavano il loro tempo negli uffici, intesi non solo come luoghi, ma anche come compiti, doveri, costrizioni, giochi di potere. Sono venuto a conoscenza anche di fatti ‘intimi’, talvolta al limite della legalità, per così dire. Quando, nel 2014, fui coinvolto in un progetto, a cura di Marco Mantello, di scrittura collettiva attorno a un personaggio di nome Paterson, decisi che mi sarei occupato di una fase precisa della sua vita, ossia di quando, dopo i quarant’anni, si occupava di consulenza per aziende del lapideo di Carrara. Un tipo di consulenza “border line”, rivolta a facilitare il commercio “in nero”, estero su estero, con legami con la finanza londinese. Questa è la natura delle sue “visite in fabbrica”, in cui incontrerà i decisori, non i subalterni. Ovviamente mi sono basato su conoscenze dirette, quindi quel personaggio ha qualcosa di mio, qualche volta l’io di quel poemetto è molto vicino alla mia biografia, talvolta invece è davvero un’altra persona, che fa base a Carrara, ma si muove dal Regno Unito ai paesi arabi. Un angelo caduto, come ho detto.

Non è secondaria la scelta che poi ho fatto di ricollocare, quando ho composto Tenere insieme, tutto il poemetto. L’ho inserito nel cuore della raccolta. Insieme a Meridiano Ovest adesso formano un dittico poematico col titolo che in origine designava la seconda raccolta: Sul vuoto. È in quella serie di testi, in cui si muovono, fra poesia lirica e narrazione, almeno tre personaggi (io, l’angelo Gabriel e Paterson), che colloco la percezione che ho dell’occidente come terra crepuscolare governata da egemonie fredde, da forze che, anche quando nascono per desiderio di giustizia, sono piegate dalla forza del denaro e dall’avidità.

MB – “Siamo plasmati da processi e rappresentazioni egemoniche, i cui meccanismi anestetizzano ormai anche le parole dei testimoni, nonostante tutto e nonostante loro. E il dovere della memoria diviene il nostro nemico. Un nemico di cui non possiamo fare a meno. La mia speranza è, alla fine, legata ad una sola certezza: solo fuori dall’egemonia risplende la tenerezza come verità finale”. Questa citazione dal Prologo del Grande innocente, parte centrale della terza e ultima sezione del tuo libro Tenere insieme, prelude al tuo attraversamento della tua storia familiare, alla ricerca di tuo nonno paterno, morto partigiano a ventiquattro anni. L’egemonia di cui parli nel Prologosembra avere alcuni riscontri testuali parecchio evidenti. “Siamo rappresentati come figure / trattenute in uno stato regressivo, incapaci / di distinguere se stesse dal mondo delle cose, come / fossimo tutto colti, mentre una transazione / fa suonare un vecchio registratore di cassa, / nel tentativo inutile di cancellare le frontiere”, “Penso, mentre scende questa notte estiva, alle percentuali misurate del desidero dai database accesi in un angolo del mondo”, “Siamo sospesi / nel tempo di tutti i tempi / sullo spettacolo alla fine / del simbolo, gli esecutori / che divorano il bello ci offrono / i resti del loro pasto su youtube, feci / che ci ipnotizzano. La nostra morte / oggi, settanta anni dopo, / è la divisione”. Tenere insieme, il titolo che hai scelto per raccogliere i tuoi versi, mi pare vada esattamente contro questa divisione, contro questa parcellizzazione, in maniera frontale. Potresti approfondire questo aspetto, declinarne le movenze fra Resistenza e Tardo Capitalismo?

Ho iniziato a scrivere i primi testi del Grande innocente molti anni fa, in prosa, ma li abbandonai. Poi è successo un fatto importante: nel 2015 ho deciso di pubblicare e, in parte, finanziare una ricerca di storia orale dedicata ai partigiani ancora in vita nelle terre apuane, dove passava la linea gotica. Fu il primo libro edito da Industria&Letteratura e Stefano Radice, lo studioso che ha curato la ricerca, mi consegnava man mano il lavoro. Ogni tanto leggevo brani delle interviste, un paio di volte raccolsi aneddoti e racconti direttamente da alcuni intervistati. Così, le mie lontane vicende familiari tornarono a galla e capii che era quello il mio grande irrisolto.

Mio nonno morì in circostanze non del tutto chiare. Uno dei partigiani intervistati seppe di me, e chiese a Radice di potermi parlare, gli disse che erano molti anni che desiderava poterlo fare. Era il quarto del gruppo, il ragazzino nemmeno quattordicenne che aveva visto mio nonno venire ucciso dal cecchino tedesco. Mi volle raccontare la sua versione, e non molto tempo dopo morì. Rimasi molto colpito da tutto questo e ripresi a scrivere, stavolta cercando i versi e collegando quel passato al presente, all’ISIS (come nei versi in cui cito youtube e un loro video) o alla vita delle città occidentali. Ripensando a quell’incontro devo dire che in parte gli ho creduto, ma in parte no. È rimasto il sospetto che molti fra i sopravvissuti abbiano ricamato un po’ troppo sull’unica epica seria del nostro paese. D’altronde ne furono i protagonisti. Comprensibile, certo. Persino prevedibile. Però… Ecco ho capito che anche la loro narrazione stanca è parte ormai di un’egemonia. Ho organizzato spesso incontri con gli studenti, a partire dai due libri usciti dalla ricerca, invitando anche alcuni partigiani. Guardavo la platea e pensavo che ormai l’ennesima replica dello spettacolo faceva solo emergere la verità amara su chi fosse il vincitore: non ci sono alternative.

Il capitalismo ha, infatti, compiuto una serie di atti finali negli ultimi decenni, assimilando ogni aspetto del reale, facendo diventare vera l’assenza di alternative, checché se ne dica. Non ci sono alternative se non la più improbabile: la tenerezza come verità finale. Perché essa venga, nella sua terribilità, è necessario che muoiano tutti i testimoni di un’epoca e di un’utopia, che potrei definire grossolanamente socialista, di cui molti partigiani, anche quelli cattolici come mio nonno, sono stati testimoni. Sono loro i guardiani della soglia, che hanno finora trattenuto il pieno dispiegarsi del male. Ora è bene se ne vadano, col loro carico di ambiguità, perché il mysterium iniquitatis abbia campo libero. In realtà tutto questo è già successo, siamo, mi pare agli atti finali di un parto. Noi ci attrezzeremo, ponendoci, di fronte alla realtà del Tardo capitalismo, nudi come il mio bisnonno Gian, quando vegliava da lontano il cadavere del figlio. Se penso a lui, al suo sguardo tenero quando da vecchio ultranovantenne mi guardava, allora penso che il finale di partita si possa ancora scrivere.

 

MB – La tentazione di porre, dopo aver parlato di egemonia capitalistica e ideologica, una domanda sul legame tra i tuoi angeli (in particolare quello che diventa una tua proiezione biografico-onomastica, Gabriel) e quelli del Rilke delle Duinesi è talmente forte per me – ci ho scritto una tesi sopra – che sono costretto a cedere. I tuoi angeli, sbattuti da un vento storico e divino, “da sempre lontani e duri”, sono muti, che “sussurra[no] il destino”, angeli che sono sottoposti a degli esami (“Il letame, / la teoria teologica, il pianto / sono il vertice del triangolo, il pane / è morto”) assomigliano a quegli schizzi di Klee che, oltre al celeberrimo “Angelo della Storia” (nella lettura di Benjamin), sono angeli smemorati, bambini, maldestri, sbadati, pasticcioni. Tutt’altro che quelli belli e tremendi di Rilke, incunaboli della creazione, pinnacoli di luce che si oppongono alla bassezza “delle cose che vengono dall’America”. Eppure, specie se a questi angeli si affianca la figura – l’unica che, a differenza di altri nomi propri, viene ripetuta in tutti e tre i volumi del tuo libro – di Lino (che, a una prima lettura, sembra essere proprio il tuo nonno partigiano), anche nella sua veste mitologica di cantore o inventore della musica (nel giorno del suo funerale), e se si prende lo stesso Rilke della prima Elegia mentre parla di Lino, della sua musica lamentosa e funebre come capace di connettere i mondi dei vivi e dei morti, si salvare l’unità del mondo (e tu parli in maniera simile: “L’universo è una voce”, “Lino, suono / e lamento convertito in livelli / e profondità, una specie di musica”) la tua raccolta si presenta, con tutti i dovuti distinguo, le necessarie uscite (grazie al Cielo) da un Simbolismo che stonerebbe ai giorni d’oggi, una sorta di riscrittura delle Duinesi, anche per quella metamorfosi (che in Rilke è Verwandlung) del quotidiano in eterno e per quella riabilitazione del dolore come soglia fondamentale da attraversare per poterla dire: “forse il dramma / è la porta, la pagina sfogliata”. Il paragone è forzato, forse, frutto di una mia vecchia (e mai taciuta) passione per il praghese…cosa ne pensi?

Ho avuto l’onore di leggere la tua bella tesi, ricca di risonanze e di intuizioni molto solide. Capisco quindi da quale profondità sorga questa tua domanda e a quali profondità mi chiami. Per mantenere un orientamento nella risposta, procederò per gradi, ma non so se sarai soddisfatto.

Partirei dal mio rapporto con Rilke e le Elegie: sono state la lettura su cui mi sono rotto la testa durante il primo anno all’università. Lettura da autodidatta, senza conoscere il tedesco. Ricordo il quadernino dove segnavo versi, parti, riflessioni su passi. Ebbene Lino trovò in Rilke, in quella prima Elegia, un senso. Perché, vedi, Lino è anche la prima parte del mio nome e viene proprio da lì, da mio nonno partigiano. Io dovevo chiamarmi semplicemente Gabriel, poi mio padre, davanti all’ufficio dell’anagrafe, aggiunse Lino. Un nome che non dicevo mai e che poi mi procurò alcuni fastidi burocratici. A 18 anni fui chiamato, dal tribunale, a scegliere se tenere o eliminare Lino dal mio nome. Fu una scelta importante: decisi di tenere il nome doppio. Ma solo qualche mese dopo, grazie ai versi di Rilke, lo amai. Rilke mi aveva dato la chiave per leggere miticamente una parte di me e del mio passato familiare.

Oltre a quanto accennato prima, sugli angeli ti dirò qualcosa in più. Sono un po’ reticente, lo confesso. Basta poco per essere fraintesi. Parto dal dirti che essi, nel mio lavoro, non solo rimandano ad altro, ma anche significano se stessi, intelligenze non-umane come le descrivono Tommaso D’Aquino o Ildegarda. Nel libro c’è chiaramente un angelo che risalta, ingombrante, che si prende la ribalta e pure il mio nome. Questo spirito, molto noto nella tradizione popolare e religiosa, l’ho osservato da vicino, se mi passi questa espressione, e ho cercato di raccontare una sua parabola esistenziale. Dal primo testo all’ultimo, dalla gloria della prima poesia alla morte, nei panni di un bambino che ne portava il nome, nell’ultima. In questo arco di oltre vent’anni, Gabriel ha sofferto, è “smagrito” urlando quella che ritiene l’unica, la vera buona notizia di fronte a presepi sempre più morti, senza avere più ascolto, senza rappresentare più “l’alternativa”. Rispetto agli angeli di Rilke, è un personaggio quasi incarnato, deluso da noi e forse anche da Dio. Ma un secolo dopo le Elegie, non può che essere così: se vuole testimoniare cristicamente, e quindi in modo autorevole, il senso del passaggio attraverso la soglia del dolore, l’angelo deve un po’ farsi come noi, rinunciando a qualcosa della sua tremenda alterità e della sua bellezza. Dopo Gesù, anche Gabriel deve provare qualcosa nella carne. Come può? Ad esempio, assumendo su di sé qualcosa dei Gabriel che il mondo, anche grazie alla letteratura, ha conosciuto, fosse un personaggio di Joyce o uno sconosciuto bambino del Kansas, malato di cancro. In questo elemento di discontinuità trovi anche una continuità con le Duinesi. Dico solo: quando in una poesia di Meridiano Ovest parlo di fotoni che bucano l’esosfera e gettano un’alba livida su un lungomare estivo, con i cartelli dei gelati, le pubblicità e le prostitute, sto parlando dell’azione degli angeli. Sono loro quelle particelle elementari, tremende e senza tempo, che mandano quella stessa luce, la sola anche se forse più stanca, capace di farci vedere le cose come sono, noi come siamo. Senza questa verità, non ci può essere resistenza alle “cose che vengono dall’America”.

MB – Oltre ad essere poeta, da poco sei anche direttore di una nuova casa editrice, che vanta già ottimi titoli riconosciuti dalla critica e apprezzati dal pubblico. La tua casa editrice si chiama Industria&Letteratura, e sembra legarsi, oltre ovviamente al numero del Menabò così intitolato, anche alle esperienze dei vari Sereni e soprattutto Volponi (nelle citazioni riguardanti l’egemonia riportate qui sopra, specie la seconda, mi pare si possa pensare spontaneamente alle pagine d’apertura de Le mosche del Capitale). Ti andrebbe di parlarne un poco?

La casa editrice, come idea, nacque diversi anni fa sulla spinta del mio studio su Adriano Olivetti, cui dedicai un piccolo spettacolo di narrazione e musica, con un cantautore molto bravo, Stefano Barotti. Olivetti mi ha molto influenzato. Quando ebbi l’opportunità di dare alle stampe il libro sui partigiani, mi mancava il nome per la casa editrice. Mentre ci pensavo mi capitò fra le mani il numero 4 del Menabò, con Ottieri, Vittorini, Sereni… il nome era lì, in copertina, e teneva insieme due mondi che io frequentavo e frequento. Che sono poi i mondi che Olivetti cercava di unire, perché l’industria, da intendersi anche come metonimia di tutto il mondo produttivo e della stessa industriosità umana, aveva (e ha ancor più oggi) un disperato bisogno di bellezza, di umanizzazione concreta. Questa, in sintesi, è la finalità da cui sono partito: fare libri belli, segnati dall’idea di una nuova antropologia. Ma in realtà dopo le prime pubblicazioni chiusi l’avventura. Anni dopo incontrai Flavio Santi, e cominciai a corteggiarlo. Ero convinto che avesse un libro di poesie. Gli dissi: se tu mi darai un libro, io riapro la casa editrice e farò una cosa bella. Non avevo un progetto vero, solo una spinta. È andata così, durante la primavera del 2020, chiusi nelle nostre case, mi arrivò la notizia che il libro ci sarebbe stato e, insieme, la richiesta di un altro scrittore, Federico Nobili, di leggere un suo romanzo, una sorta di pastiche funambolico. Mi dissi: pubblichiamo questi due e poi vediamo come va. Avevo il supporto di Niccolò Scaffai, che è stato molto importante per me. Poi ho incontrato persone e amici che collaborano e mi supportano continuamente, tanto che adesso si può dire che I&L sia più una cooperativa di fatto, una comunità, che non un’impresa individuale. Nel 2022, oltre a proseguire con Poetica, la collana di poesia coi libri quadrati, apriremo una collana di narrativa diretta da Martino Baldi, proseguiremo con la saggistica e poi, sempre per la poesia, dovrebbe esserci una bella sorpresa con un progetto nuovo. Insomma, fare l’editore in questo momento mi interessa moltissimo.

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