24-10-2011
Intervista a Gabriel Del Sarto (Sul vuoto, Transeuropa 2011).

A cura di Maiko Favaro.

1) Il suo volume rivela una connotazione metafisica fin dal titolo. All’interno della raccolta, la dialettica tra assoluto ed effimero viene articolata in varie direzioni: ad esempio, compaiono in maniera ricorrente il contrasto tra la nostra dimensione limitata e contingente di contro all’allargarsi infinito del tempo e dello spazio; il mistero della differenza tra essere e non-essere («e percepire la silenziosa / soglia del tempo e la minima differenza / fra le mie mani e la loro assenza.»); il nostro vivere dimenticando o esorcizzando la morte («e il tempo si allontana attraverso il tempo / nei milioni anni di luce, e questo fidarsi, / sai, di esserci ancora stasera al mondo.», e altrove: «Vedo figure sfocate che perpetuano se stesse, / il loro sangue, l’eredità biologica, infilarsi / nel sollievo dell’oscurità, dentro / queste fabbriche estive […]»). Sono cose di cui l’uomo, nella sua esistenza quotidiana, è consapevole ma su cui solitamente non si sofferma troppo a lungo: per istinto di auto-conservazione, per evitare melanconie che inibiscono l’agire. Quali obiettivi si propone lei quando vuol far riflettere il lettore su questi aspetti, quale dovrebbe essere la reazione del ‘lettore ideale’?

Come lei nota, citando la poesia d’apertura, l’io di questa raccolta assume, come punto di partenza, il dato di un mondo parcellizzato e abitato da monadi, in contesti fisici e psicologici spesso freddi, e da qui, da questa visione del mondo, costruisce la trama del libro. Dalla notte descritta in quella prima poesia, quando l’io si ferma di fronte al cancello di casa nel freddo vero di una periferia qualsiasi, inizia un viaggio nell’oscurità e nel vuoto, della città come dell’essere. Non si tratta di un percorso ascetico o soltanto metafisico, sia chiaro, ma di qualcosa di estremamente concreto. Si tratta della narrazione di un’esperienza simile a quella che molti, fra coloro che vivono nelle aree urbanizzate del mondo, fanno: ci muoviamo dentro folle come in un flusso, aspiriamo a spicchi di vita sensata, gesti che abbiano un nome. Cerchiamo consolazioni: religioni, amori, idee, oppure conflitti e violenza. La prima parte del libro parla di questo.
Ci sono poi degli snodi, interni al volume, in corrispondenza di precise epifanie, che allargano con più nettezza il discorso alla questione centrale: il conflitto fra necrofilia e biofilia. Vanno letti in questo senso, ad esempio, alcuni versi che lei cita: «e il tempo si allontana attraverso il tempo / nei milioni anni di luce, e questo fidarsi, / sai, di esserci ancora stasera al mondo.» Prima di questa poesia c’è il poemetto Meridiano ovest, che ha raccontato, per flash lirico-narrativi, lo stile di vita e il senso di vuoto che molti di noi provano, nei momenti di maggiore consapevolezza. Le figure sfocate che entrano nelle fabbriche estive sono le vite di chi fa parte dello sciame inquieto dei consumatori, vite etero-dirette dal marketing, eppure in ricerca di un senso, di una “maschera” cui comunque appigliarsi, per far rimanere viva una speranza.
È a questo punto che si inserisce la rottura de Il tempo si allontana, la poesia citata che apre la IV sezione. Quello che accade non è l’esorcizzazione né, tantomeno, il desiderio di oblio della morte. Siamo in presenza, piuttosto, di un momento di grazia: quando si comprende che esiste la possibilità della gratitudine e della fiducia, nonostante il vuoto, o forse proprio grazie ad esso. Quando si accede in un luogo di tempo sospeso e di grazia, il Kairòs. Tutta la IV sezione si muove e problematizza questa rivelazione di fondo.
I testi della V parte, che mi sembrano possedere una carica epifanica ben distinta dagli altri, recuperano e ridefiniscono il nucleo poetico della raccolta, fino al finale, all’unico testo che compone la VI e ultima parte. A ben vedere non siamo lontani dal clima dell’ultima poesia de I Viali: la vita è segnata da una benedizione originaria, che nasce dal vuoto e lo comprende. Essa è il nostro legame sia con la pienezza della vita che con il buio della morte.
Qui è il senso di tutto, e bene possono dirlo alcuni versi di Rilke: il mio Dio è buio, è come un tessuto/di cento radici, e ciascuna beve silenziosa. Ed è questo bere silenzioso e incessante che mi preme.
2) Dalle sue poesie risulta spesso una visione ‘atomizzata’ della realtà. Le impressioni si succedono l’una dopo l’altra paratatticamente, per mezzo di frasi nominali. Alla base, c’è la tendenza ad una visione solipsistica della realtà, per cui la centralità va al flusso del proprio pensiero, più che ad una realtà esterna concepita come in sé autonoma? Può essere interpretata anche in questo senso l’epigrafe dell’opera «Non esiste, propriamente, la storia. Esiste soltanto la biografia.» (da R. W. Emerson)? C’è mai il sospetto di una realtà esterna come – montalianamente – «inganno delle cose», dietro al quale sta il nulla?

La visione che noi abbiamo delle cose costruisce la realtà delle cose stesse. In altri termini, noi ormai vediamo, anche a causa della rappresentazione che ne hanno dato i media negli ultimi decenni, la realtà come atomizzata, così sentiamo di viverla, e in questo modo, di conseguenza, essa diventa ed è. La mia è allora solo una mimesi della percezione comune, che il nostro “io minimo” sotto assedio ha sviluppato. Siamo immersi in un reticolo di narrazioni, spesso manipolatorie, lo subiamo, ne facciamo parte, pure contribuiamo a costruirlo ogni giorno. Questa consapevolezza è uno dei punti di partenza del viaggio dell’io di questo libro.
Ne discende che l’affermazione che la realtà esterna possa essere concepita come “in sé autonoma”, è in questo caso, per me, priva di importanza. Quello che mi interessa è l’individuo che costruisce la realtà, percependola e poi narrandola a sé e agli altri. Uno dei significati dell’epigrafe può essere questo, in effetti. Non si può che partire dall’io e dal racconto che esso fa di sé e del mondo, se vogliamo comprendere quello che ci accade, anche da un punto di vista di una dimensione pubblica. Lo scrivevo anni fa, in un articolo apparso su La Gru, intitolato Privatistico, privato, nel quale cercavo di distinguere i due termini: “Il privato […] rimane il luogo dell’autenticità possibile […] di ciò che ci interessa in quanto uomini. In esso e soltanto in esso può verificarsi l’evento che ci tocca, che ci apre o che ci chiude al mondo. Il sublime, come stato di grazia dell’essere, può essere solo quotidiano e privato.”
Privato non significa, nella mia proposta, chiusura nel piccolo mondo asfittico di un io ipertrofico e solipsistico. Questo è l’esito malato che porta a una dimensione privatistica e fragile. Significa, piuttosto e semplicemente, consapevolezza che l’illuminazione, la comprensione ed anche la fiducia nel positivo della vita, come la conoscenza del dolore più profondo, avviene prima di tutto nella biografia dell’individuo.
Non intendo negare il fatto che una realtà “autonoma in sé”, “veramente vera”, possa esistere. Dico solo che non mi importa perché non è conoscibile né comunicabile.
Riguardo al nulla di cui mi chiede: esso non è concepito come una realtà “dietro” le cose, come fosse una verità che si scopre svelando un inganno. Il nulla, in questa raccolta, dovrebbe essere letto  come una dimensione connaturata alle cose. Il vuoto e il nulla, non sono, con certezza, più veri del pieno e della speranza. Fanno entrambi parte di un’ipotesi. Allo stesso tempo sono un’esperienza necessaria per la nostra vita.
Il punto che mi interessa, però, è che quest’epoca produce molte occasioni per sperimentare un vuoto che uccide la vita e la creatività. Si tratta di un vuoto che ci consuma, mentre noi consumiamo le cose acquistate poco prima. Quest’aspetto del vuoto, che non ne fa un fondamento della “serietà della vita”, dell’amore per essa, è presente in diversi testi delle prime quattro sezioni della raccolta. Una diversa visione del nulla appare, gradualmente, nelle ultime due sezioni. E con essa, la possibilità della speranza.

3) Sempre a proposito di Montale, in Sul vuoto l’influsso del poeta genovese è avvertibile in più punti. Lo stesso verso conclusivo della raccolta («Se quel vento è intimità che salva.») ricorda la montaliana In limine, con l’irrompere del vento vivificante, l’aspetto salvifico, l’accento sull’intimità. Pure il ricorso estensivo al ‘tu’ dialogico ricorda Montale, essendo tecnica particolarmente cara al poeta delle Occasioni. Quali funzioni ha il ‘tu’ a cui si rivolge nella sua poesia? Qual è il suo rapporto con la poesia di Montale, che significato ha per lei?

Ci vuole un tu, l’altro, perché io mi accorga di esserci, di contare qualcosa. Solo il tu ci salva. Alex Zanotelli una volta ha scritto (cito a memoria): “spesso mi domando chi sono io. L’unica risposta che so darmi è: Io sono le persone che ho incontrato”.
Naturalmente, dal punto di vista tecnico, Montale ci ha mostrato come nella nostra lirica alta si potesse passare da un “tu grammaticale e retorico” ad un “tu storico”. Questa è stata una delle lezioni più importanti che ho ricevuto dalla sua poesia. Penso, in definitiva, che Montale sia stato per me un maestro di sguardo, un mentore rispetto alle prospettive possibili da assumere nei confronti delle cose e delle rivelazioni che da esse emergono.

4) Come giudica il rapporto fra Sul vuoto e la sua raccolta d’esordio, I viali (Edizioni Atelier, 2003)?

La prima raccolta è un’opera costruita sulla perdita e sulla memoria. Questa è nata attorno a pochi selezionati momenti. Le poesie si configurano o come vere e proprie epifanie fondative o come esplosioni e riflessioni a partire da quelle stesse epifanie. Escluso il tentativo poematico di Meridiano Ovest, si tratta di un libro con un più alto tasso lirico del precedente, con un linguaggio al contempo più diretto e semplice. Le differenze sono poi nella diversa natura e nella ricomposizione delle fonti. Insomma ho usato i materiali in altro modo, il presente e il futuro hanno un peso maggiore rispetto al libro precedente.
Detto questo, un legame forte esiste, ed è quello che emerge dall’ultima poesia de I viali, intitolata non a caso Blessed che, a posteriori, considero un’anticipazione del nucleo del secondo libro.

5) Secondo lei, quali compiti dovrebbe avere la poesia nella società contemporanea? C’è chi ha previsto che, nel prossimo futuro, la canzone musicale prenderà sempre di più il posto della poesia (cfr. l’intervista a Claudio Giunta per «Universitando», giugno 2009, leggibile online alla pagina http://www.claudiogiunta.it/wp-content/uploads/2009/06/per-universitando1.pdf). Lei, che oltretutto è grande estimatore di musica, concorda con questo tipo di previsioni? Cos’è che rende insostituibile o difficilmente sostituibile la poesia come mezzo di espressione, in particolare comparandola con la canzone?

La poesia, come forma d’arte particolare, troverà anche in futuro i suoi spazi, pur residuali. Anche grazie ai nuovi media. In questo senso non verrà mai sostituita, semplicemente perché nessuna forma d’arte può del tutto sostituirne un’altra. Il cinema non ha sostituito né la fotografia né la pittura. La performance o la canzone non sostituiranno la poesia, proprio in quanto forme d’arte diverse. Sono “insiemi diversi” dentro il grande contenitore della cultura di un’epoca. Sottoscrivo quanto recentemente dichiarato, sulla propria pagina di Facebook, da Vasco Rossi: “Voglio diffondere il concetto che la Canzone d’Autore fa parte della Cultura che conta e insieme al cinema, la musica pop e la letteratura, è una delle più importanti forme d’Arte contemporanea”. Meglio non si può dire. Certo muta il mandato sociale e la conseguente riconoscibilità e diffusione di un’arte rispetto ad un’altra, come ha saggiamente scritto Mazzoni nel suo Sulla poesia moderna. Questo porta delle conseguenze, che vanno riconosciute e, per lo più, accettate. Poi, all’interno dello spazio che un’arte detiene in un certo tempo storico, mi muoverò con il mio talento. In altre parole, se volevo fare la rock star, avrei dovuto continuare a suonare il mio basso elettrico.
Il mio ragionamento, ad ogni modo, parte da una considerazione: non ha senso un conflitto, una sorta di lotta, fra forme d’arte diverse. Ognuna insegue lo stesso bisogno di comunicare. Per questo non ho mai pensato che la poesia abbia, o debba avere, compiti diversi rispetto ad altre forme d’arte. Sappiamo che lo specifico della poesia è la ricerca e la sperimentazione sul linguaggio e la lingua ad un grado di profondità maggiore rispetto alla canzone e diverso rispetto alla prosa del romanzo. Ma il linguaggio è un mezzo come lo sono le note per la musica. Attraverso di esso chi scrive può indicare all’uomo mondi possibili migliori, vie di crescita e maturazione, sentieri di fratellanza e condivisione. È questo contributo ciò che conta, ed ogni artista è chiamato a darlo.