La recensione a Il grande innocente – di Ivo Flavio Abela

“Il grande innocente” di Gabriel Del Sarto. Verso la luce salvifica della poesia

Con il sovvertimento di ogni legge fisica relativa al funzionamento del tempo e della vita si apre “Il grande innocente” di Gabriel Del Sarto (Nino Aragno editore, 2017). L’Anticlinale menzionato nella lirica d’apertura è infatti un elemento fisico che va percorso da sotto in su per raggiungere la vetta del monte di cui costituisce il declivio (e che sembra sia più avanti richiamato dalla “dorsale del tempo”). Su esso tutto scorre dal basso in alto (anche i liquidi e gli idrocarburi). E si ha quasi la sensazione che, nella propria ascesa di un terrestre e insieme esistenziale nuovo Monte Carmelo, l’uomo sia in fondo assecondato da quel sovvertimento della fisica. Del resto Gabriel Del Sarto si professa angelo come l’omonima e nota creatura appunto angelica. In lui sembra apparire talvolta una vena che, se non può dirsi mistica alla Juan De La Cruz, è comunque fortemente riflessiva, introspettiva, spirituale, e che lo porta a interpretare anche la materialità e i colori – il marmo e il bianco in particolare – in modo metafisico. Del resto quella parola – “Anticlinale” – reca maiuscola l’iniziale, come avviene con la parola “Assoluto”, quando essa diventa sinonimo di “Onnipotente”. Nella stessa lirica si precisa che “la morte prima / è quella della parola che manca”, affermazione quasi epigrammatica che, al di là del senso universale, sembra una parziale dichiarazione programmatica della propria fede nella parola stessa, la cui produzione frenetica Gabriel avverte come un’urgenza. Anche perché nella poesia risiede per lui la possibilità di sentirsi vivo (quasi come se, privato della necessità di esprimersi mediante la produzione di versi, egli potesse diventare una sorta di dead man walking condannato all’attesa della definitiva morte fisica).

Porte (e cardini), sfere, finestre, vetrate, diventano così il correlativo oggettivo de “Il grande innocente”, poiché questi apparentemente prosaici oggetti permettono ai ricordi di acquisire una forma tangibile e duratura, di non rimanere “cose al limite del vento”, e dunque di non dissolversi (del resto per un attimo anche le porte “sono di vento”, ma la percezione del loro colore verde permette a chi le osserva di reputarle reali, almeno finché il loro colore non smetterà di essere visibile e dunque di apparire consistente).

È correlativo oggettivo anche lo scaffale di un supermercato, nella misura in cui l’istante che separa l’uomo dall’afferrare l’oggetto posto sullo stesso scaffale potrebbe aiutare l’avventore a comprendere “le numerose meccaniche di una solitidine” e forse anche quelle della propria estrema caducità  (più avanti definita “termine della corsa”). Luoghi ed eventi ordinari (un incontro di basket, un concerto, una fabbrica), in altri termini, si alternano nei versi di Gabriel a luoghi ed eventi non fisici, ma del pensiero, in un continuo gioco di sconfinamento del fisico e del materiale nell’impalpabile e viceversa.

Un capitolo a parte viene tessuto intorno a un personaggio, Paterson, già protagonista di un progetto di scrittura collettiva, “La deriva del continente”, cui Gabriel ha partecipato in passato (e bene ha fatto a riportarlo nell’alveo della scrittura individuale, rivelandosi talvolta gli esperimenti di scrittura collettiva prove che, per così dire, dietro le quinte hanno sempre bisogno di una mano unificante comunque individuale, con la conseguente ed ovvia dimostrazione del fatto che forse l’intelligenza collettiva somiglia più a una chimera che a una creatura reale). Paterson è Gabriel ed è pure (lo denuncia lo stesso Autore) ciascun membro di quella porzione di varia umanità che popola gli uffici. Se le porte, le finestre, le vetrate sono i correlativi oggettivi di ricordi che rischiano altrimenti una progressiva rarefazione fino alla totale scomparsa, gli uffici sono le scatole sceniche in cui i correlativi si collocano. Dentro tali contenitori (ma talvolta anche immediatamente fuori. Si pensi alla menzione di elementi esterni come il Tamigi) si snoda la “veglia” in cui tutti sostano – ignorando il motivo di tale indugio – incapaci di capire che “il presente è dove abita la pace” e preferendo rifugiarsi in una speranza che diventa “disperazione di un avvento infinito”. Gabriel, angelo che conosce la luce, dimostra tuttavia di non avere perduto la capacita di osservarla: “Il bianco di fronte a me del capannone […] accompagna la luce finale del sole che osservo verso i piloni del porto”. Quasi a significare che alla fine di tutto non c’è il buio, non c’è la morte, ma appunto la luce che è segno di vita. E non può essere casuale il fatto che la fine della raccolta non sia caratterizzata dalla presenza di un epilogo, ma sorprendentemente da un “inizio”. Tutto ciò risulta possibile a Gabriel, nonostante la difficoltà derivante – in quanto non solo angelo, ma prima di tutto uomo – dal non riuscire del tutto a scrollarsi di dosso i dubbi, le incertezze, le elegiache amarezze conseguenti ad un evento tragico, traumatico, violento, di quelli che si trasmettono ai discendenti mediante il sangue e la memoria, cioè la morte violenta del nonno partigiano.

All’uccisione dell’avo è dedicato un capitolo il cui titolo diventa titolo anche dell’intera raccolta. L’eco dell’evento non si è mai spenta: è tornata nei racconti della vedova con una ricorsività rituale, in una stanza che funge da cella del tempio in cui si consumano il rito stesso della memoria e l’offerta del sacrificio di se stessi sull’altare della potenza evocativa e medianica della parola. Ciò che rimane all’Autore è un dolore freddo che si estrinseca anche nell’immaginare gli istanti immediatamente successivi alla scarica di proiettili di cui il nonno è stato bersaglio. Ma la disperazione viene cancellata dalla serena e pacificante accettazione spontanea di quella morte (il senso di parole già citate, cioè “il presente è dove abita la pace”, trova qui il suo più alto esempio), con l’effetto salvifico di condurre a non desiderare più rivendicazioni. Quell’accettazione passa anche attraverso l’unità recuperata nel momento in cui due mani (della nonna e del nipote) si saldano “perché la poesia possa dire più della prosa”. Chi scrive non può fare a meno di tornare con la mente a vari versi di Elytis, dai quali emerge la funzione della poesia come sorta di ufficio religioso il cui officiante è il poeta stesso, in quanto capace di creare nuova realtà attraverso l’uso sempre inedito della parola. Va del resto sottolineato che in Del Sarto anche i dubbi hanno svolto una funzione positiva, insieme al “sospetto che quelle idee e quegli ideali (per i quali il nonno è morto. N.d.r.) non siano portatori di verità assolute”.

L’accettazione spontanea della tragedia sembra del resto assecondata dall’amore (collocato fra i “cardini”) che l’Autore prova per la figlia, alla quale augura una vita lunghissima (per un attimo si ha il sospetto che la figlia si confonda con la compagna dell’Autore, in un respiro che annulla ogni barriera distintiva tra amore paterno e amore di compagno). E pure se Gabriel un giorno non ci sarà più, il nome di lei “è il tuo, il mio, senza fine musica / per il mondo che comincia”. Ecco che “L’inizio” ha inizio (si perdoni il calembour) e non diverrà mai fine finché Gabriel sentirà l’urgenza di farsi carico della fatica di quel “piccolo sciame sconosciuto” formato dalle parole.

A chi scrive non importa indugiare su un’analisi linguistica e retorica dei versi di Del Sarto, tesa a individuare le caratteristiche precipue in particolare del lessico e del modo in cui l’Autore realizza il pur interessante tessuto sintattico delle proprie liriche. Ciò che più è risultato urgente e intrigante per l’autore del presente testo è l’interpretazione dell’originale e ardito modo in cui l’io narrante del poeta ha tessuto la trama della propria storia interna, cioè dell’ascesa mistica su per quel perturbante Anticlinale d’apertura, lungo il quale ha condotto stretto a sé, con tenacia e magnetismo, anche il lettore.

Ivo Flavio Abela

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