Recensione a “Il grande innocente”, di G. D’Andrea, sul blog L’EstroVerso

La recensione completa di file audio (letture di G. D’Andrea) è QUI

Scrive D’Andrea:

Il primo assillo è temporale, cruccio esistenziale e viatico indispensabile della poesia; il sostegno e la croce di questo importante libro di poesia che è Il grande innocente (Aragno, «i domani», Torino, 2017) di Gabriel Del Sarto.
Per chi ha familiarità con l’opera dell’autore toscano, potrà scorgere un’evoluzione stilistica rispetto a I viali e a Sul vuoto (le due raccolte precedenti) – e infatti Il grande innocente va a chiudere una “trilogia del tempo” come ci dice lo stesso Del Sarto in nota –, una trasformazione dell’impianto concettuale che traduce la voglia di stabilire un contatto più duraturo col mondo. La necessità “ripristinante” presente sin dagli esordi («noi colle amarene Fabbri sul gelato allo yogurt / mentre ripristiniamo scene bibliche», A 3 km., Gabriel, in I viali, Ed. Atelier, 2003, p. 10) cerca approdi e trova nel ricordo una momentanea sistemazione. Ricordo che, nel caso di quest’ultima raccolta, non si limita a condividere quelle esperienze personali che tanto hanno contraddistinto la poesia di Del Sarto (la dimensione “patetica” del linguaggio sembra adesso incrociarsi con un distacco che allontana il soggetto, quasi ridotto a presenza fantasmatica), ma affonda nell’impersonale delle ere, delle stratificazioni e delle pieghe ctonie, minerali: «Esiste quasi / da sempre anche l’Anticlinale, / è una piega / delle rocce, una struttura / dove gli strati sono convessi…» (Il tempo e la vita, p. 7).
Il tempo come concetto che si allontana dalla percezione e si ipostatizza nel linguaggio, in un movimento che va, appunto, dall’illusoria capacità percettiva all’accertamento della stessa illusione, per cui il soggetto deve costruire su basi “altre” la sua presenza (si osservi come I viali e Sul vuoto si chiudevano e aprivano rispettivamente attraverso lo “stato di grazia” epifanico scatenato dall’ascolto, in entrambi i casi di una canzone, così come Sul vuoto e Il grande innocente, lo fanno riflettendo sulla parola, intesa ancora come salvazione nel primo caso, come mancanza nell’ultimo).
Nel susseguirsi liminare di oggetti e vicende – nella raccolta incontriamo porte, sfere, bolle, in pratica soglie di costante attraversamento e chiusura, nel tentativo di avvicinare l’altro per un riconoscimento che può sempre tramutarsi in abbandono – si avverte la necessità di un contatto, in primo luogo col sé fuggevole e precario che contraddistingue la nostra attuale presenza («quando sfiorare lo schermo / del telefono cellulare è l’unica forma / di contatto con se stessi», Nel profilo dietro la porta…, p. 27), in perenne attesa. Attesa che sembra risolversi proprio quando il soggetto (il Gabriel personaggio fantasmatico della IV sezione, Gli occhi di Gabriel, che accompagna da sempre il lavoro del Gabriel reale e autoriale) conferma la sua possibile sparizione e trasformazione in una figura antagonista per cui «saremo incapaci / di vedere in noi il seme / opposto che germoglia» (Hitler, p. 55) e che muta ulteriormente – aggiungerei in cerca di un’altra salvezza – nel “grande innocente” della sezione omonima.
Il grande innocente, lo scopriamo dal prologo del poemetto che compone per intero la V sezione, è il nonno del poeta, «ucciso in un giorno imprecisato del luglio del 1944» (Prologo, p. 59), ma diventa paradigma di un’agnizione ben più profonda: la scoperta di un soggetto il quale definitivamente presenzia la storia, nel dipanarsi di un legame che lo travalica, che si trasmette ben oltre i suoi confini spazio-temporali. Finalmente sembra aprirsi un sentiero che supera l’impasse secondo-novecentesca della fine della storia, di quell’ideologia del “post-” che ha velato l’evidenza «un tempo senza dimensioni né scopi, impossibile / da sondare o gestire, una geologia cosmica / oltre i nostri sforzi / e i cui oggetti osservabili sono solo i corpi, / nella loro evidenza che svanisce» (Il grande innocente, VII, p. 67).
Un’evidenza che è il resto, la matrice che invisibile germoglia dalle rovine di un tempo congelato (qui bisognerebbe ampliare la riflessione sugli sviluppi poetici di una generazione cresciuta negli ultimi scampoli del Novecento, tra gelo e disgelo), un resto che, comunque, è vita, per quanto inconsapevole del suo fare ma ancora auspicabile come «quota di desiderio / che abbiamo dissotterrato» (Il grande innocente, X, p. 70).
In conclusione, il volontarismo di rinascita avvertibile in nuce nella riconsiderazione storico-generazionale (Il grande innocente è sì il nonno di Gabriel, ma anche Gabriel stesso e la terza figlia del poeta, Caterina, nominata proprio all’interno del poemetto) è anche apprensione per chi ha constatato il nostro essere «sospesi nel tempo di tutti i tempi / sullo spettacolo della fine / del simbolo» (Il grande innocente, XI, p. 72), ovvero di essere dentro una trasformazione della comunicazione tra gli uomini di portata inaudita, dentro un rischio che paradossalmente, ma non troppo, potrebbe ricostituire una capacità relazionale e un nuovo senso comunitario proprio nel riconoscimento della sua scomparsa: «un valore collettivo» (La lingua del destino, p. 84) per cui ancora «serve del sacrificio» (I cardini, p. 99).

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