La mia lettura de “I mondi”, di G. Mazzoni

La raccolta, capolavoro che resterà, è organizzata attorno ad una precisa visione del mondo e del presente: la forma di vita occidentale è fondata sulla creazione di piccole sfere private, impotenti e monadiche. In questi “mondi”, ognuno di noi è prigioniero, non ha potere, non ha privilegio né morale né conoscitivo. Il cielo è sempre il solito, le periferie hanno gli stessi colori, le stesse sagome di case, le stesse auto nei parcheggi e omologati sono i luoghi in cui trascorre l’esistenza e si forma l’identità degli uomini e delle donne che si incontrano in queste pagina. Persone colte nella loro quotidianità: tornano a casa dal lavoro, prendono medicine, guardano la TV, costruiscono qualcosa, con dignità partecipano al meccanismo comune della solitudine.

Prosa e poesia sono compresenti, mescolati, al servizio di un compito, quello di raccontarci i due poli che ci riguardano: l’io e il contesto, il singolo e gli altri. La poesia è il soggetto, la prosa la sua trascendenza. Ci sono due sguardi e due verità, entrambe valide. Il singolo, come monade, e gli altri, che sono solo numeri, statistiche o sondaggi, senza potere. E l’io del poeta si scopre uguale, forse persino identico, agli altri che osserva. Siamo storie, abbiamo un destino, degli affetti, ma siamo comunque ‘superati’ da forze superiori, che ci determinano, che non possiamo trascendere, e non hanno significato. Siamo raggelati nel momento in cui scopriamo queste forze. Ed è questa freddezza che Mazzoni ci rimanda. Come non ci fosse salvezza, neppure nelle epifanie più intime. Neppure nell’osservare gli altri, il mondo, i media, le informazioni, il flusso delle vite occidentali. Non c’è calore, ma disillusione, anche politica. Non c’è fra i mondi che si muovono, mi pare, posto per la speranza.

Senza toni cupi, ma per questo più duri e decisivi, Guido Mazzoni ci accompagna dentro delle verità terribili. Andiamo avanti ormai senza neppure più orizzonti di dolore vivo, senza sangue. Possiamo solo constatare, osservare le cose che esistono e noi che esistiamo dentro queste cose. Il tempo è forse perduto per sempre, o ritrovato come una verità gelida, come fossimo alla fine di tempi che potrebbero non finire mai. Come se fosse possibile raccontare solo la fine lenta che viviamo, che potrebbe essere eterna, dentro la morte di ogni senso possibile. Senza riscatto.

Questo libro, che colpisce duro, come un pugno nello stomaco, dice qualcosa di vero. Certo, non tutta la verità, ma una parte importante di essa. Almeno per noi di questa parte di mondo, oggi così incapaci di tenerci insieme, di dare profondità alla parola solidarietà.

Sono pro-vocato da questo poeta. Anche perché dice cose a me molto vicine, eppure con uno sguardo radicalmente diverso, che queste stesse cose me le pone lontane. Galassie che si scontrano. Sull’assenza/presenza della Speranza e del Senso. E questo lo trovo magnifico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo sogno

Ogni voce torna nel risveglio

quando le forze compresse in questo sogno

sono il mondo che attraverso.

La forma della costa dopo il temporale,

l’odore di pioggia nell’aria, la mano

di mio padre che mi porta

in alto, sulla sabbia,

se lo stupore nomina le cose

e le fa essere davvero,

mare e casa, darsena e spiaggia,

mentre nel sole respiro la mia ansia

quando l’infanzia cede alla memoria

la paura, l’origine delle parole, questo squarcio

pieno di cose che parla del paesaggio

di una mattina degli anni Settanta mentre guardo

il mio volto, nel vetro ancora buio,

apparire tra le nubi. Ricordo

sempre più spesso solo gli atomi compiuti,

la vita presso di sé, così perfetta

nelle monadi dove eravamo veri

per un istante indicibile: il suono

della pioggia sui teli, il vento sulla plastica

mia madre chiude la tenda, tra il fulmine

e il tuono un vuoto indefinibile,

fuori dal tempo di tutti

il mare nitido, noi stessi per un attimo.

 

 

 

Elephant and Castle

Gli stormi scossi quando il treno

esce dalla terra, il cielo nero

oltre gli sciami dei segnali e il vento

che nasce tra i binari e si disperde

tra i capannoni, le serre abbandonate, le colonne

dei camion nella nube, l’erba medica

ai lati della strada, nel colore

che copre la città mentre le luci

dei lampioni colpiscono le nuvole –

 

e la calma di quando si comprende

che la vita esiste e non significa,

mentre il vagone ridiscende e il vostro

volto riflesso scompare dalla plastica

dove le dita muovono la brina.

 

Essere questo, nella prima

onda del ritorno, un vuoto liquido

sopra la rete delle strade e un giorno

che ripete se stesso;

quando si impara a vivere il presente

senza pensare di non appartenergli e la grande

periferia da attraversare è il mondo vero,

il proprio posto nel campo delle forze.

 

 

 

GabrielAuthor