Un piccolo manifesto poetico

In un Articolo apparso nel blog La poesia e lo Spirito esprimevo una mia personale visione del rapporto fra pubblico e privato nella poesia lirica. Un piccolo manifesto di poetica? Qui sotto lo trascrivo, rimandando al link chi volesse leggere i molti commenti lasciati dai lettori di quel blog. Era il 2006, qualcosa di me e delle mie idee è, da allora, mutato.

Privatistico, privato

Solo il percetto è reale, e solo il personale e particolare è generale. La poesia lirica, che nella sua forma più classica costituisce il nocciolo delle tradizioni poetiche occidentali degli ultimi due secoli e mezzo, ha fatto di questo assunto psicologico il proprio fondamento, come brillantemente descrive Guido Mazzoni in Sulla poesia moderna. L’io che in essa parla ha, come caratteristica, quella di credere che le verità che dice abbiano un valore universale. Alcune fra le esperienze poetiche più significative degli anni ‘90, in Italia, mi pare testimonino l’assoluta vitalità di questo modo di intendere la poesia; penso, per citarne alcuni, agli ultimi due libri di Bacchini (Visi e foglie e Scritture vegetali) come al Profilo del rosa di Buffoni o al bellissimo Umana gloria di Benedetti. Libri, questi, che lasceranno una traccia profonda.

A questa linea mi riporto, cercando di raccontare la vita nei suoi frammenti significativi, e nelle onde emotive che da essi si possono propagare nei giorni, costruendo un senso che valga, che sia capace di porsi in dialogo con la ragione, che vede, se non è ingenua, come il mondo sia un campo di forze violente, e che ciò che ci circonda e ci attende è il nulla. Il privato, allora, rimane il luogo nel quale ciò che è pubblico acquista un’autenticità maggiore, è il luogo dell’espressione delle emozioni, ossia di ciò che ci interessa in quanto uomini. In esso e soltanto in esso può verificarsi l’evento che ci tocca, che ci apre o che ci chiude al mondo. Il sublime, come stato di grazia dell’essere, è, in prima istanza, quotidiano e privato, e solo successivamente pubblico e comunitario. Per questo, nominare il privato (i suoi oggetti, i luoghi, le persone, i modi, i riti ecc.) è un’esperienza umana, e poi poetica, che ci comunica a livelli profondi delle verità su noi. A patto che sia l’io che il tu siano, in un certo senso, autentici, storici e non grammaticali.

La differenza, quindi, sta nella persona che dice io e nella capacità che ha di caricare di emozioni serie ciò che nomina (il plurilinguismo, qui, diviene un fatto consequenziale). Se così non accade, mi pare che la non autenticità divenga autismo. Dal privato come luogo di rivelazione, anche divina, si passa al privatistico come ‘posa’, artificio insensato. Un atteggiamento che, credendo di cogliere il segno dei tempi e l’assoluta banalità del vivere, non fa altro che porre un io malato al centro del mondo e dell’osservazione degli altri, che ne dovrebbero condividere, innanzitutto, proprio il nichilismo minimo. A noi lettori viene chiesta, attraverso ammiccamenti e compiacimenti per le proprie debolezze e per una realtà deprivata di senso e sciocca, una strana complicità. Non c’è più traccia di una forte volontà di confronto, anche tragico, col mondo, con l’altro, con le lacerazioni dell’anima e della storia, in un io così depotenziato. Che, nel migliore dei casi, ci racconta di una triste e arguta logica della sopravvivenza, metropolitana o rupestre, ma di solito ha ben poco da dirci.

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