La recensione di D’Andrea

La presa sul reale parte da una riflessione sul “niente”. Nell’epoca del nichilismo raggiunto e del disorientamento etico la poesia tenta una reazione spostando il proprio linguaggio allo stadio minimo della descrizione di esperienze che si accendono in un’atmosfera di raccoglimento, nei piccoli gesti quotidiani, nel comune formicolio delle esistenze e delle relazioni tra le stesse.

Il tema fondante nella seconda raccolta di Gabriel Del Sarto è proprio la relazione: dalla dimensione lineare del “viale”, di una strada che si allunga, partendo dalle proprie origini, attraversando incroci, siamo condotti ad una inedita vastità, infinita proprio perché non ancora esplorata, quella del vuoto. Sul vuoto è la ricognizione di un orizzonte mutato, anche concettualmente, a cui si giunge da coordinate precedentemente vissute ma ineluttabilmente perdute. Il “senza-dimensione” che il vuoto simbolicamente rappresenta illustra lo spaesamento del soggetto lirico che continua a ritrovarsi nelle micro-percezioni relazionali che lo hanno formato anche attraverso le inevitabili cadute. Scoordinazione e relazione, macro e micro testo (macro e micro cosmo), dimensioni che si creano nella loro apparizione, sciolte da ogni determinismo.

A conferma di quanto esposto andiamo a osservare retrospettivamente l’incipit de I viali: «Radiosa, quest’ora,/ e violenta di luce», sin dagli esordi è possibile notare la modalità di riflessione poetica di Del Sarto che è capace di cogliere l’accensione del reale nella presenza-assenza del soggetto poetico rispetto al contesto, in una posizione anti-dialettica: radiosa è l’ora nella sua violenza (l’aspetto negativo) ma in Sul vuoto troviamo: «I ricordi nella luce obliqua/ dalla porta a vetri, un vento leggero e un ritorno/ di senso, molecolare» (I tigli, p. 11, vv. 10-12), la luce da violenta diventa obliqua, il taglio verticale della stessa luce, correlativo della vista e della possibilità sensoriale del soggetto, si attenua in una percezione liquida e quasi tattile del reale, per questo sembra decadere l’affermazione della quarta di copertina sui toni più metallici della seconda raccolta rispetto alla precedente; piuttosto gli stessi toni aderiscono al panorama più vasto e spaesante e si abbassano in maniera ancora più decisa, rispetto all’humus relazionale che dominava I viali.

La poesia di Del Sarto, adesso, galleggia sul vuoto che si riempie di frammenti costituiti dai contatti basilari (familiari) che piano si innervano creando il tessuto di un racconto anche se provvisorio (la biografia presentata in esergo rappresenta, a mio avviso, l’unico approdo in un mondo senza storia).

La precarietà dei contatti è il tema che va a sovrapporsi ai su accennati motivi relazionali ed è nel resoconto degli stessi, che appaiono al setaccio della trama del racconto, che la ricerca di Del Sarto realizza i risultati più alti, in quella condivisione spazio-temporale della presenza, in una disposizione topologica e cronologica che ci immette nel territorio della scelta e, inevitabilmente, dell’etica.

Alcune citazioni da pensatori contemporanei possono aiutarci a comprendere la temperie culturale in cui sembra posizionarsi la poetica di Del Sarto:

«Il senso è abbandonato alla condivisione, alla differenza delle voci. Non è un dato anteriore e esteriore rispetto alle nostre voci, Il senso si dà, si abbandona. Non c’è forse altro senso nel senso se non questa generosità» (J. L. Nancy, Narrazioni del fervore, Moretti & Vitali, Bergamo 2007, p. 117),

la differenza delle voci, dei soggetti immersi nello spazio di una comunicazione che è presenza, crea un mondo con le sue nervature e interferenze (dinamica rintracciabile sin dalla prima poesia della raccolta, La differenza).

«Interesse viene dal latino interesse, che vuol dire “essere tra”, o anche impersonalmente “esserci una differenza tra”, e quindi “essere d’importanza”, “importare”. L’interesse è dunque etimologicamente connesso con l’intermedio e con la differenza. […] Noi non siamo affatto padroni del nostro interesse, perché esso non può essere determinato da noi. In qualsiasi situazione si trovi, l’uomo è sempre inter-esse, all’interno della dimensione dell’interesse; non esiste fuori gioco nella condizione umana. Anche il destino più umile sollecita una partecipazione, un amor fati, un interesse affinché si compia» (M. Perniola, Più – che – sacro, più – che – profano, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2010, pp. 33-34).

Partendo da queste coordinate concettuali in cui sembrano muoversi i testi di Sul vuoto, allora appariranno più chiare anche le scelte linguistiche di Del Sarto: l’intermedio dell’interesse che non crea semplice scarto ma, attraverso la lampante differenza degli essenti, rivendica nella presenza l’apparizione di una comunità in continuo movimento e senza confini, oltre quelli topologici del momento in cui si verifica il contatto, apre la possibilità di una parola umile, scabra, che riduce al minimo gli artifici retorici avvicinandosi alle modalità del parlato e, nell’apparente minimo sforzo paratattico, tenta il dialogo: “«Ma – mi chiedi – ma non ti viene mai/ la voglia di avere/ qualcuno per casa, con cui parlare almeno/ sfogarti?»” (Meridiano ovestIII, vv. 18-21, p. 25).

Anche solo nella transitorietà dell’evento rappresentato dalla voce dell’altro è permesso all’io poetante di ridefinirsi attore tra gli attori, in quanto l’alterità paradigmatica degli affetti dona senso all’esistenza e una, seppur fragile, nuova identità.

La composizione Il senso, che suggella la raccolta, ci dice proprio la speranza dell’esserci nonostante l’assenza di infrastrutture e di segni prestabiliti che guidino il nostro cammino sul “vuoto” spalancato:

Il senso

Il senso era qui, luminoso
e perduto, nell’attenzione improvvisa,
dei tuoi occhi mentre mi parlavi
di lui, del tuo sognare la sua morte
mentre accadeva. Eri qui. Lo sguardo
su te ora è sul vuoto e quella sedia
è come morte, altra morte ancora.
Siamo questa speranza
trafitta dalla cenere dopo la luce
di un gesto, come se avesse questa tua pazienza
ogni storia, o differenza, che sapevi
e raccontavi: così ascoltare era come
assaporare il tessuto che mi lega
al dolore di un padre e di un figlio.

Il resto, le guerre, è lontano da qui
e viviamo in un mondo ovvio,
che non si cura di noi, e lo chiamiamo
casa. Ma anche stasera dopo il pasto dopo
il cartone animato, i popcorn caramellati,
soffrire fonda la serietà della vita. Sono
gli infiniti che si raccolgono
nel sonno dei miei figli, sonde e respiri.
E non so quale notte poi,
dolce e infinita forse, è la forma
del racconto che da oggi ti comprende.
Se quel vento è intimità che salva.

 

«Un essere siffatto, che è capace di avere in sé la contraddizione di se stesso e di sopportarla, è il soggetto; e ciò costituisce la sua infinità» (G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 359),

infatti

«è la libera provenienza, la liberazione in sé, cioè a partire da niente, dall’ente in generale senza fine» (J. L. Nancy, Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2009)

che ci rende consapevoli della nostra “nullità” fino ad aprirci umilmente al senso dell’infinita presenza-assenza.

Come nella lettura di Giorgio Agamben de L’infinito (G. Agamben, Il linguaggio e la morte, Einaudi, Torino 1982 e 2008), in cui «il luogo della poesia è sempre un luogo di memoria e ripetizione» (op. cit., p. 95), la poetica di Del Sarto riesce ad annunciare l’importanza imprescindibile dell’unico mondo come sempre caradimora.

Gianluca D’Andrea

Qui il link a “punto critico”, uno dei miei preferiti. In pieno stile D’Andrea!

 

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